Perché è cosi lenta la lumaca?
Qualche riflessione intorno alla “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza” di Luis Sepúlveda
All’inizio di questa quarantena, di questo tempo sospeso e un po’ strambo, ho letto e riletto questo racconto, proprio mentre arrivava la notizia che il suo autore, Luis Sepúlveda, era stato contagiato dal virus che tutto aveva fermato.
E quando ieri ho appreso della sua scomparsa, un vortice di pensieri ha attraversato la mia mente. Una spirale di associazioni, simile a quella che compare nella copertina del libro di cui parliamo, su cui impera una lumaca, protagonista sorridente che, con il suo sguardo contornato di case, sembra volerci rassicurare almeno un po’.
Abbiamo così bisogno di rassicurazione, sicurezza e pazienza.
Così oggi ho deciso di rileggere questa storia e di interrogarla. Ho provato a cercare tra le righe, le virgole e le virgolette, qualche messaggio capace di regalare qualche respiro, tra i sospiri, i sussurri e i rimpianti.
Ne ho collezionati molti. E ho deciso di provare a lanciarne qualcuno nell’aria, come i petali di un soffione di primavera.
Perché è così lenta la lumaca?
È questa la domanda che anima e muove il racconto.
Nella Prefazione della storia è l’autore stesso a spiegarcelo: questa storia nasce dal desiderio di rispondere all’ingenua domanda del nipote che anni prima, in giardino, era stato rapito dalla lentezza di quell’animale così particolare. Le domande dei bambini, si sa, contengono sempre una certa dose di infinito. Almeno quanta ne racchiudono le risposte che solo i nonni sanno dare.
E così ecco il primo suggerimento, il primo respiro.
Un Luis Sepúlveda nonno e un nipote. La loro relazione. Un giardino. Un tempo lento in cui perdersi tra le domande che possono nascere nella mente di un lungo pomeriggio al sole. La pazienza con cui solo un nonno può andare a cercare la risposta tra le cose che sa. I regali che sono nascosti in questi attimi di eternità.
Solo in questa diapositiva sta un concentrato di senso, di nostalgia e di desiderio. I nonni, così colpiti da questo virus. La vastità di memoria, saggezza, mani solcate di ricordi e fatica che questa emergenza ci sta portando via. I nipoti così forzatamente lontani da loro. La paura di poterli perdere, senza un saluto degno dell’Amore condiviso. Il dolore.
E un ricordo personale mi sfiora. I miei nonni, nel giardino qui davanti a me. La gara delle lumache che costringevamo insieme ad arrampicarsi sul tronco dell’albero. Una canzone in dialetto lombardo e la voce di mia nonna che, sorridendo, proponeva un bicchiere di vino alla lumaca. Il tempo infinito che è solo dell’infanzia. E la domanda che risuona nella storia della lumaca come ritornello: “è necessario andare così in fretta?”. Lo è?
Il primo respiro allora è questo: il tempo a perdere. Un tempo lento, che sembra buttato e che invece affida valore. Il tempo dei bambini e dei nonni con loro, dei pomeriggi al sole, del vuoto da riempire, quello dei legami che danno significato e muovono il pensiero. Un tempo da ricercare. Un tempo da preservare se ancora lo abbiamo oppure da celebrare nella memoria per coglierne i frutti.
Il secondo respiro mi ha trasportato in un’altra età della vita e in una delle sue declinazioni più potenti: l’adolescenza e la ricerca forsennata e coraggiosissima della propria identità.
La lumaca, protagonista della vicenda, decide di partire e di lasciare la sicurezza della propria abitudinaria famiglia del Paese del Dente di Leone per rispondere alle domande che la scuotono dall’interno: qual è il mio nome? Chi sono io? E quali sono le ragioni della lentezza, cioè l’origine di una delle caratteristiche che fa di me ciò che sono?
Mi ha fatto pensare agli adolescenti oggi, così forzatamente “sdraiati”, impediti nell’esplorazione del mondo reale e precipitati in quello virtuale. I ragazzi e le ragazze, forse un po’ dimenticati, sprofondati nelle loro camerette, nascosti dietro le cuffie e gli schermi, rannicchiati nelle tute fin troppo sformate e ammutoliti dalla fragilità loro e del mondo intero. Dimenticati ma non inermi, stanno lentamente ma inesorabilmente rivoluzionando la scuola, cercando il modo per resistere e riscrivere la rivoluzione delle distanze relazionali, delle interazioni senza contatto, della speranza senza futuro, della crescita senza movimento.
È anche a loro che parla la tartaruga della storia, masticando gli ultimi petali delle margheritine, quando spiega alla lumaca che ciò che conta è essere quello che si è, che l’unico modo per comprendere la propria lentezza è accettare davvero di esserlo, accogliendo quello che la propria Verità affettiva dice e porta con sé.
Questo è il secondo respiro: mantenere il desiderio adolescente. Rivoluzionario, anche se lento, a volte impercettibile, ma inesorabile.
Il terzo ha a che fare con la Casa.
Le lumache portano la loro casa sulle spalle. È una fortuna e una condanna.
Come lo è per noi questo tempo di quarantena. Le nostre case a volte sono pesanti da portare sulle spalle, ce le portiamo addosso come fanno le lumache.
Sono pesanti perché dense dei divieti, delle chiusure e della fatica della libertà limitata.
Pesanti perché luogo sicuro che qualcuno teme di intaccare portando il virus dentro casa.
Pesanti perché palcoscenico privilegiato di concentrati relazionali di ogni genere.
Anche questo contribuisce alla nostra lentezza: “Tu sei una giovane lumaca e tutto ciò che hai visto, tutto ciò che hai provato, amaro e dolce, pioggia e sole, freddo e notte, è dentro di te e pesa, ed essendo così piccola quel peso ti rende lenta”.
E l’ultimo respiro parla di futuro.
È un tempo difficile quello che stiamo vivendo. Un tempo denso di dolore, di perdita e di morte. Proprio come nella storia della lumaca, e forse dell’umanità, la differenza sta nella capacità di “buttare il cuore oltre l’ostacolo”, credere che questo tempo contiene in sé anche i semi del futuro che sarà, che porterà novità se sapremo attendere. Così, prima di ritirarsi nella sua personale quarantena, la nostra lumaca Ribelle “spiò la scia di bava che brillava sulla rugiada e stavolta pensò che, pur essendo una traccia di dolore, era anche una traccia di speranza, e chiamò le sue compagne a guardarla per non dimenticarla più”. E al loro risveglio “là dove avevano lasciato la scia, in lungo e in largo fino a scomparire vicino ai primi alberi del bosco, crescevano appetitose foglie di dente di leone”.
L’ultimo respiro, allora, ha a che fare con quello che sarà, con la capacità di attendere e sperare, che altro non è se non la somma di quello che è stato e che oggi, qui, è.
Solo noi lo possiamo costruire.
“In questo viaggio […] ho imparato tante cose. Ho imparato l’importanza della lentezza e, adesso, ho imparato che il Paese del Dente di Leone, a forza di desiderarlo, era dentro di noi”.
L. Sepúlveda, Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza. Guanda editore, Collana Le gabbianelle (2013).